Ci presenti il suo libro.
Il romanzo, con prefazione di Barbara Alberti e introduzione dell’avv. Libera Cesino, pres. dell’Ass. ‘’Libera dalla violenza’’, è strutturato in forma di diario e si apre con una pagina molto suggestiva in cui la saggia e “carica d’anni” Estêre, ormai quasi cieca, guida sulla collina prospiciente la Mala Jin (la Casa delle donne) la giovanissima Elena-Doris in un campo sterminato di rossi tulipani. Siamo nella Turchia curda, nel 2015. Un fluido passa dalle mani di Estêre a Doris, rendendola capace di partecipare ad un fenomeno straordinario: i tulipani si aprono e rivelano di custodire al loro interno le anime di donne, che hanno vissuto drammaticamente il loro desiderio di riscatto da una terra bellissima ma fortemente dominata dagli uomini e da leggi, che le condannano all’ invisibilità e ad una morte precoce. Dai tulipani si levano le voci di tante giovani donne, che dal lontano 1900 ad oggi hanno intriso di sangue una terra martoriata da mani ostili: ogni voce sparge nell’aria la sua testimonianza, chiedendo alla protagonista di raccontarla al mondo intero. Ogni racconto è suggellato da una data per dimostrare come il dramma dei curdi abbia un inizio ma non ancora una fine.
Dal secondo capitolo con tecnica cinematografica, con un lungo flashback, torniamo indietro di tre anni, siamo in Italia, ad Agropoli, in provincia di Salerno e seguiamo lungo un arco ristretto di tempo la storia di Elena, adolescente tormentata dal desiderio di ritrovare la propria identità, lei che, quando era ancora in fasce, è scampata ad un naufragio nelle acque del mar Tirreno, dove invece hanno trovato la morte la madre Hêvrin e la sorella maggiore Lâle, la cui anima ora si aggira per la baia di Trentova, in cerca di sepoltura. Ecco che entriamo immediatamente nell’atmosfera del romanzo, di quelle che sono le due componenti della narrazione: da una parte la concretezza dei luoghi, dei gesti, delle azioni, la precisione delle date, dall’altro la rappresentazione di una realtà paranormale, in cui è possibile vedere, parlare, toccare concretamente persone morte, raccoglierne le storie, conoscere da loro anche la propria storia. Due fermo immagine importanti che ci dicono già tanto dell’Autrice, della sua formazione classica, del suo rapportarsi a situazioni tramandate dall’epica e, d’ altro canto, la sua apertura al mondo onirico, alla realtà dell’ “altrove” dove possiamo entrare in ispirito, ma anche col nostro stesso corpo.
Quella della protagonista è una doppia ricerca di identità, familiare ed etnica, perché Elena sa di essere venuta dal mare, eppure non è sola nel suo iter di ricerca perché è supportata dagli èidola, dalle anime del padre e della sorella, nella piena consapevolezza che chi ci lascia non lo fa per sempre, ma continua a guidarci con la sua impercettibile presenza. Un sofferto ritrovarsi, in cui Elena scoprirà di chiamarsi Doris e di appartenere non solo per nascita, ma anche per DNA, all’etnia orgogliosa, indipendente, coraggiosa delle donne curde. E l’Autrice chiude il cerchio della narrazione riportandoci, alla fine del romanzo, in quella regione della Turchia da dove eravamo partiti, una terra in cui le donne sono immerse in una realtà cruenta che le rende “bambole di carta”, che possono essere strappate in mille pezzi, ma proprio per la loro tenacia diventano “Tulipani nel cemento”, simbolo di forza, di coraggio per le nuove generazioni.
È qui che giunge a compimento la parabola di formazione della protagonista, nel cuore dell’Anatolia, tra bambine cresciute troppo in fretta, giovani guerrigliere pronte a imbracciare il Kalashnikov per difendere il proprio diritto alla vita, anche a costo di sopprimere per sempre ogni naturale istinto femminile.
Il testo è popolato di figure femminili: Ania, Samina, Hêvrin, Estêre, Dilar, Doris-Elena, figure materne, accoglienti, figure che tramandano riti, conoscenze, tradizioni, donne generose, sensibili, fragili e terribilmente forti nello stesso tempo. In particolare, il romanzo è un inno alle donne curde, un dar voce alla loro tragedia che è quella di tutto un popolo, ma, in particolare, è la loro tragedia. È un riconoscere loro la grande forza della resistenza, dell’accettazione consapevole del proprio ruolo e del proprio destino. Un testo che non esclude, però, gli uomini, quelli che sanno essere buoni e generosi come le loro donne. E lo sguardo dell’autrice si stende anche con commossa empatia ad abbracciare i tanti migranti, soprattutto le donne e i bambini, generando pagine di intensa emozione.
Un’ultima annotazione: ogni capitolo è introdotto da una poesia che sintetizza e anticipa i contenuti del capitolo. Un testo, insomma, che apre la possibilità di molti approfondimenti. sotto diversi punti di vista.
Ci regali un breve stralcio dell’opera, una parte che per lei è particolarmente significativa.
Vi presento un estratto in versi e in prosa tratto dal capitolo finale: Le donne del Kurdistan
“Bambola di carta’’
Bambola di carta
strappata da una mano ostile
pezzi di me si effondono
nell’aria della sera
nel vento del domani
Non dimenticare
mai il mio volto
né il mio nome
incisi nel rossore del tramonto
nei raggi tenui dell’aurora
nel fuoco ardente del meriggio
‘’Si scostò e i miei occhi assorbirono tutta l’atrocità della guerra e l’asperità della vita delle donne curde. Attiviste, combattenti, ma pur sempre fragili come bambole di carta, che la mano dell’uomo è pronta a strappare in ogni momento. Pezzi di vita, ritagli di donne sparsi ovunque, che non avranno mai giustizia eppure continueranno a gridare nei secoli e con orgoglio il loro dolore. Esempi di una bellezza negata, di una vita alienata, eternati da un coraggio e da un’anima che non ha eguali’’.
Secondo estratto tratto dal capitolo incipitario: Le testimonianze dei tulipani della terra scarlatta, nel giardino della memoria.
D’un tratto, uno dei fiori scarlatti si schiude davanti ai miei occhi perplessi.
Lancio una fugace occhiata ad Estêre. Con un gesto della mano mi invita al silenzio. La voce s’intensifica, echeggiando con intensità nell’aria impregnata di mistero. Parla la mia lingua. Cosa sta dicendo? Metto a tacere i miei pensieri e ascolto con apprensione, combattuta tra timore e stupore.
‘Olan, basta! È proibito parlare, scrivere e insegnare la nostra lingua! Non possiamo! Non è permesso, non puoi, ti arresteranno!’. Gli ripeto ogni giorno.
Ma lui niente. Sordo ai miei richiami, continua. Canta, scrive e parla in curdo.
‘È contrario alla cultura e alle tradizioni locali, lo sai!’.
‘Ilham, sono fiero di usarlo’, mi risponde con insistenza.
Eccolo, mi sembra ancora di vederlo, è lì seduto alla cattedra. Insegna la nostra lingua ai suoi giovani alunni.
‘Non puoi, è severamente vietato!’, gli grido con tutta la voce che ho in corpo. Ho paura. Ma lui niente. Continua. Non mi ascolta. Fa di testa sua. Mi pervade i timpani con l’incipit della nostra bellissima canzone popolare ‘’Ey Reqip’’.
Ey reqip, her maye
qewmê kurd ziman
Naşikê û danayê topê ziman
Hey guardiano, è rimasto vivo e forte
il popolo della lingua curda.
Non si infrange né declina
sotto i colpi del tempo
Olan la ripete all’infinito, quale tacito patto per sancire un’identità negata che, nonostante continui abusi, sopravvive. Sopravvive disperata attraverso le nostre bocche e si anima con il nostro coraggio. Fondante della propria identità di popolo è la lingua. E il curdo è il filo rosso che ci lega alle nostre tradizioni, ai nostri avi. Impercettibile, invisibile ma pur sempre esistente e resistente.
Ti pervade l’animo con la sua incisività, con la crudezza di parole genuine che ti insegna- no a vivere con orgoglio in una realtà che cementifica ogni fiore della vita: libertà, dignità, diritti. I nostri sogni sono morti. Devastati da un continuo diktat. Le manine degli alunni di Olan si stringono e dalle tenere bocche si leva insistente un profluvio di libertà. Cantano, continuano a farlo. Sono suoni di vita. È un piacere sentirli.
Eppure tremo perché sono un presagio di sangue.
È il 1999. Io sono Ilham, ho diciannove anni e tutta una vita davanti. Almeno, così credevo, ma era solo una vana illusione. Tanti sogni coltivavo, fin da bambina, me li hanno strappati tutti, uno ad uno. Hanno prelevato Olan dalla scuola e non l’ho più rivisto. Poi sono entrati nella nostra casa, hanno abusato di noi, lasciandoci morte sul terreno.
Il nostro sangue, il mio e quello di mia madre, impregna questa terra. Raccontalo al mondo, per favore, non lo dimenticate. Non ci dimenticate! Dimenticaaaaateee!
Il tulipano si richiude, sembra aver trovato pace, dopo aver raccontato il suo dramma. Ho gli occhi lucidi. Cerco di trattenere le lacrime, ma non sono abbastanza forte. Sprofondo in un baratro di angoscia. Perché tanta sofferenza? Una tragedia che non risparmia nessuno, neanche i bambini, nemmeno quelli mai nati. Resto attonita, sconcertata da quella realtà che si palesa davanti al mio sguardo, quasi incredulo.
Estêre capta il mio smarrimento e i dubbi che mi scuotono l’animo. Dotata di una saggezza che la rende infinitamente speciale, con le sue rivelazioni tempra il mio animo, tenero come un virgulto e impreparato alla nuova vita che mi aspetta.
«Doris, il sangue del popolo curdo scorre nelle vene di questa terra, che assorbe la nostra energia e la restituisce sotto forma di fiori di dimensioni variabili ma tutti della medesima cromia. Il rosso. Il colore del sangue, della morte e dell’eterna palingenesi. Non moriremo mai veramente. Le voci delle donne e degli uomini curdi si leveranno forti come un monumento perenne di libertà. Saremo sempre vivi per testimoniare la nostra storia».
C’è un aneddoto particolare che l’ha spinta a scrivere questo libro?
Mi ha sempre connotata una sensibilità particolare verso gli ultimi e gli inermi, che non hanno voce per essere ascoltati. Da sempre mi dedico a progetti ed iniziative contro la violenza di genere, collaborando con enti e associazioni locali e proponendo una narrativa di sincero impegno sociale, volta alla rivendicazione dei diritti negati alle donne e ai bambini, sempre più vittime di un mercimonio che umilia la loro dignità. L’eroica resistenza del popolo curdo e la dignità delle sue donne è una tragica realtà che ho imparato ad apprendere nel tempo, studiando e leggendo numerose testimonianze, di cui una in particolare mi ha estremamente colpito: si tratta di una lettera scritta nel 2015 dalle combattenti della Mala Jin curda-la casa delle donne- e indirizzata a tutti popoli del mondo amanti della libertà e, in primis, a noi donne dell’Occidente. Un messaggio toccante, un’autentica quanto drammatica richiesta di aiuto e di attenzione, che da donna non potevo ignorare. Il libro nasce, quindi, dal bisogno sincero e profondo di accogliere questo appello, per evitare che possa scivolare nella dimenticanza o, peggio, in un silenzio complice di assurde contrapposizioni etniche.
Cosa si aspetta dalla partecipazione a Casa Sanremo Writers 2023?
Sarà un’occasione importante per poter dar voce a chi voce non ha, non l’ha mai avuta, per dar luce a chi da sempre vive nella penombra, consumando il proprio dramma nel silenzio e nell’indifferenza generale: le donne e i bambini del Kurdistan, al fine di veicolare un messaggio di speranza, di non violenza, e, in ultimo, di favorire un nuovo umanesimo universale. Il nostro quotidiano sta diventando, di fatto, il teatro della non ragione, come ci insegnano i grandi intellettuali del passato, dunque è importante promuovere la lettura come fonte di conoscenza di sé e degli altri, per ampliare i propri orizzonti emotivi, imparando a leggere gli eventi e a guardare l’altro con approccio empatico, ovvero con gli occhi dell’anima: unica possibile soluzione ad un’indifferenza dilagante, da cui nasce l’onda del disprezzo e della non-accoglienza verso uomini, donne e minori che sono stati privati dei diritti umani, sacri e inviolabili.
In fede
Prof.ssa Anna D’Auria